Il fondatore di Slow Fiber Dario Casalini dialoga con Duccio Facchini, direttore di Altreconomia.
Alla moda, economici, ma anche dannosi per l’ambiente e realizzati in maniera affatto etica: i capi di fast fashion hanno un prezzo assai più alto di quello riportato sul cartellino. La loro produzione avviene in Paesi estremamente poveri come Bangladesh, India e Cina, dove lavoratori sottopagati e costretti a lavorare in condizioni disumane utilizzano materie prime non sottoposte ai controlli previsti dalle leggi italiane o europee. Gli abiti vengono poi trasportati in Occidente per essere venduti dalle grandi catene a prezzi stracciati e, dopo essere stati indossati in media 8 volte, vengono buttati o “donati” ai Paesi più poveri, principalmente Ghana, Kenya, Cile. Questi abiti solitamente, danno vita a dei mercati locali di abbigliamento a buon prezzo. Oltre il 40%, però, non è idoneo alla vendita perché rotto o sporco, viene così gettato in discariche abusive, fiumi o bruciato all’aria aperta, con un grave impatto sull’ambiente e le vite delle persone che lì abitano.
Come contrastare il fast fashion? Quali comportamenti adottare per fare la differenza?